Categoria: Pillole Formative

11/03/2009

I piedi del Risorto

di Staff — Categorie: Pillole FormativeCommenti disabilitati su I piedi del Risorto

Carissimi,

io non so se nell’ultima cena, dopo che Gesù ebbe ripreso le vesti, qualcuno dei dodici si sia alzato da tavola, e, con brocca, catino e asciugatoio, si sia diretto a lavare i piedi del Maestro.
Probabilmente, no.
C’è da supporre, comunque, che dopo la sua morte, ripen­sando a quella sera, i discepoli non abbiano fatto altro che rimproverarsi l’incapacità di ricambiare la tenerezza del Signore.
Possibile mai, si saranno detti, che non ci è venuto in mente di strappargli dalle mani quei simboli del servizio, e ripetere sui suoi piedi ciò che egli ha fatto con ciascuno di noi?
Dovette essere così forte il disappunto della Chiesa nascente per quell’ occasione perduta, che, quando Gesù apparve alle donne il mattino della risurrezione, esse non sep­pero fare di meglio che lanciarsi su quei piedi e abbracciarli.
Testuale: “avvicinatesi, gli cinsero i piedi e lo adorarono”. Ce lo riferisce Matteo, nell’ultimo capitolo del suo Van­gelo.
Gli cinsero i piedi.
Non gli baciarono le mani o gli strinsero il collo. No. Gli cinsero i piedi!
Erano già bagnati di rugiada. Glieli asciugarono, allora, con 1’erba del prato e glieli scaldarono col tepore dei loro mantelli. Quasi per risarcire il Maestro, sia pure a scoppio ritardato, di un’ attenzione che la notte del tradimento gli era stata negata.
Gli cinsero i piedi.
Fortunatamente avevano portato con sé i profumi, per ungere il corpo di Gesù.
Forse ne ruppero le ampolle di alabastro e, in un rapimento di felicità, riversarono sulle caviglie del Signore gli olii aro­matici, che furono subito assorbiti da quei fori: profondi e misteriosi, come due pozzi di luce.
Gli cinsero i piedi.
Finalmente! Verrebbe la voglia di dire.
Ma, chi sa, in quel ritardo ci doveva essere anche tanto pudore.
Forse la Chiesa nascente, rappresentata dalle due Marie, prima di cadergli davanti nel gesto dell’ adorazione, aveva voluto aspettare di proposito che Gesù riprendesse davvero le vesti. Non quelle che aveva momentaneamente deposto prima della lavanda. Ma quelle veramente inconsutili del suo corpo glorioso.
Carissimi fratelli, oggi voglio dirvi che la Pasqua è tutta qui. Nell’ abbracciamento di quei piedi.
Essi devono divenire non solo il punto d’incontro per le nostre estasi di amore verso il Signore, ma anche la cifra inter­pretativa di ogni servizio reso alla gente, e la fonte del coraggio per tutti i nostri impegni di solidarietà con la storia del mondo.
Non c’è da illudersi. Senza questa dimensione adorante, espressa dal gruppo marmoreo di donne protese dinnanzi al Risorto, saremo capaci di organizzare solo girandole appariscenti di sussulti pastorali.
Se non afferriamo i piedi di Gesù, lavare i piedi ai maroc­chini, o agli sfrattati, o ai tossici, non basta. Non basta nep­pure lavarsi i piedi a vicenda, tra compagni di fede.
Se la preghiera non ci farà contemplare speranze ultra­mondane attraverso quei fori lasciati dai chiodi, battersi per la giustizia, lottare per la pace e schierarsi con gli oppressi, può rimanere solo un’ estenuante retorica.
Se, caduti in ginocchio, non interpelleremo quei piedi sugli orientamenti ultimi per il nostro cammino, giocarsi il tempo libero nel volontariato rischia di diventare ricerca sterile di sé e motivo di vanagloria.    .
Se l’adorazione dinnanzi all’ ostensorio luminoso di quelle stigmate non ci farà scavalcare le frontiere delle semplici libe­razioni terrene, impegnarsi per la promozione dei poveri potrà sfiorare perfino il pericolo dell’ esercizio di potere.
Non basta avere le mani bucate.
Ci vogliono anche i piedi forati.
È per questo che, quando Gesù apparve ai discepoli la sera di Pasqua, “mostrò loro le mani e i piedi”.
E poi, quasi per sottolineare con la simbologia di quei due moduli complementari che, senza l’uno o l’altro, ogni annuncio di risurrezione rimarrà sempre mortificato, aggiunse: “guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io”.
Mani e piedi, con tanto di marchio! Ecco le coordinate essenziali per ricostruire la carta d’identità del Risorto.
Mani bucate. Richiamo a quella inesauribile carità verso i fratelli, che si fa donazione a fondo perduto.
Piedi forati. Appello esigente a quell’ amore verso il Signore, che ci fa scorgere il senso ultimo delle cose attra­verso le ferite della sua carne trasfigurata.
Buona Pasqua!


don Tonino, vescovo

11/03/2009

Gli uni i piedi degli altri

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Carissimi,

ve lo confesso: è stata una scoperta pure per me.
Non avevo mai dato troppo peso, infatti, a quella espres­sione pronunciata da Gesù dopo che ebbe finito di lavare i piedi ai discepoli: “anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”.
Gli uni gli altri. A vicenda, cioè. Scambievolmente.
Questo vuoI dire che la prima attenzione, non tanto in ordine di tempo quanto in ordine di logica, dobbiamo espri­merla all’interno delle nostre comunità, servendo i fratelli e lasciandoci servire da loro.
Spendersi per i poveri, va bene.
Abilitarsi come Chiesa a lavare i piedi di coloro che sono esclusi da ogni sistema di sicurezza e che sono emarginati da tutti i banchetti della vita, va meglio.
Ma prima ancora dei marocchini, degli handicappati, dei barboni, degli oppressi, di coloro che ordinariamente stazionano fuori del cenacolo, ci sono coloro che condividono con noi la casa, la mensa, il tempio.
Solo quando hanno asciugato le caviglie dei fratelli, le nostre mani potranno fare miracoli sui polpacci degli altri senza graf­fiarli. E solo quando sono stati lavati da una mano amica, i nostri calcagni potranno muoversi alla ricerca degli ultimi senza stancarsi.
Della lavanda dei piedi, in altri termini, dobbiamo recup­erare il valore della reciprocità. Che è l’insegnamento più forte nascosto in quel gesto di Gesù.
Finora forse ne abbiamo fatto un po’ troppo un esercizio eroico di conquista. L’abbiamo scambiato per uno stile di ac­caparramento di benevolenze mondane. L’abbiamo inteso co­me un espediente missionario capace, se non di provocare la fede, almeno di vincolare le emozioni dei cosiddetti lontani.
Un bel gesto, insomma. Di quelli che fanno immagine. Soprattutto per quel gioco dei contrasti. Perché quanto più Gesù sprofonda fino a terra, tanto più emerge l’altezza del suo messaggio.
Invece, con quella frase “gli uni gli altri”, espressa nel testo greco da un inequivocabile pronome reciproco, siamo chia­mati a concludere che la brocca, catino e asciugatoio, prima che essere articoli di esportazione, vanno adoperati all’interno del cenacolo. Non vanno collocati fuori dalla chiesa, quasi per essere offerti come ferri del mestiere a coloro che, ter­minate le loro liturgie, escono nel mondo.
No. Non c’è un’eucarestia dentro, e una lavanda dei piedi fuori. L’una e l’altra sono operazioni complementari da espri­mere ambedue negli spazi dove i discepoli di Cristo si radu­nano e vivono. Fuori, semmai, c’è da portare la logica di quei doni: frutti che maturano in pienezza solo al calore della serra evangelica.
In conclusione, brocca, catino e asciugatoio devono dive­nire arredi da risistemare al centro di ogni esperienza comunitaria. Con la speranza che non rimangano suppellettili sem­plicemente ornamentali.
Che cosa significa tutto questo per noi?
Che, ad esempio, un sacerdote difficilmente potrà essere portatore di annunci credibili se, nell’ ambito del presbiterio, non è disposto a lavare i piedi di tutti gli altri, e a lasciarsi lavare i suoi da ognuno dei confratelli. Anzi, c’è di più o di peggio. È l’intero presbiterio che manca di credibilità, se nel suo grembo serpeggia il rifiuto, o il riserbo sdegnoso, o il fastidio, a tal punto che i piedi ognuno se li deve lavare per conto suo.
Non si tratta di essere mondi, cioè puri. Anche gli apo­stoli dell’ultima cena lo erano: “voi siete mondi” aveva detto Gesù. li problema è essere servi. Perché gli uomini accet­tano il messaggio di Cristo, non tanto da chi ha sperimen­tato l’ascetica della purezza, quanto da chi ha vissuto le tri­bolazioni del servizio.
Altro che gesto sentimentale, quello di Gesù, da incorni­ciare magari nell’album dei buoni esempi!
La logica della lavanda dei piedi è eversiva. A tal punto, che grida all’ipocrisia quando, in una associazione ecclesiale lacerata dalle risse e dilaniata dalle rivalità, si pretende di orga­nizzare il pediluvio alla gente.
Ma a chi andiamo a raccontarla!
Il servizio agli ultimi che stanno fuori non purifica nes­suno, quando si salta il passaggio obbligato del servizio agli ultimi che stanno dentro. Anzi si ritorce come condanna per­fino su chi crede che gli basti la riconciliazione procuratagli dai sacramenti, quando poi snobba quella grande riconci­liazione con la vita che si raggiunge lavando i piedi del pros­simo più prossimo.
Gli uni gli altri. A partire dalle famiglie. Che non possono dirsi cristiane se non assumono la logica della reciprocità.
Perché, se il marito smania di lavare i piedi ai tossici, la moglie si vanta di servire gli anziani, e la figlia maggiore fa ferro e fuoco per andare al terzo mondo come volontaria, ma poi tutte e tre non si guardano in faccia quando stanno in casa, la loro è soltanto una controtestimonianza penosa. Che danneggia perfino i destinatari di un servizio apparen­temente così generoso.
Ce n’è abbastanza perché la ripetizione rituale della lavanda dei piedi che, tra la commozione generale, celebreremo la sera del giovedì santo, ei metta nell’ animo una voglia struggente di servizio, di accoglienza, e di pace.
Verso tutti. A partire dai più vicini.
E ci mandi in crisi, più che mandarci in estasi.
Perché, visto che siamo così lenti a convertirei, quella brocca è esposta al sacrilegio non meno della stessa eucarestia.
Vi saluto


don Tonino, vescovo

11/03/2009

I piedi di Bartolomeo

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Carissimi,

L’altro giorno ho ricevuto questa lettera.
“Caro Vescovo, io non sono né marocchino, né tossico­ dipendente, né sfrattato. Temo, perciò, di non aver udienza presso di te. Perché ho l’impressione che oggi, se non si appartiene a quel campionario di umanità che ha a che fare con la violenza, con la prostituzione, con la miseria econo­mica e morale, non si è in possesso dei titoli giusti per entrare nel cuore di Dio. Ma è colpa mia se la casa io ce l’ho, e il lavoro anche? Debbo farmi uno scrupolo se non ho mai rubato, e in tribunale non ci sono entrato neppure come testimone? Mi devo proprio affliggere se, grazie a Dio, non ho grossi problemi di salute né soffro di solitudi­ne? Quando ti sento parlare degli ultimi, e affermi che la Chiesa, a imitazione di Gesù, deve esprimere un amore preferenziale verso coloro che sono precipitati nell’avvili­mento del vizio e dell’ alcool, io, che per giunta sono aste­mio, mi sento quasi un escluso. È mai possibile, mi chiedo, che il Signore mi scarti sol perché non frequento le bettole, e la sera mi ritiro a casa in orario? Debbo proprio ritenere una disgrazia il fatto che nella graduatoria, sia pure effime­ra, dell’estimazione pubblica, invece che gli ultimi posti, occupo posizioni di tutto rispetto? Ricco non sono, ma non mi manca il necessario per tirare avanti con una certa tran­quillità. Non ho mai tradito mia moglie. I miei figli, che non sono né malati di AIDS né disoccupati, mi danno tantissi­me soddisfazioni. Mi reputo fortunato. E sarei l’uomo più felice della terra se, da un po’ di tempo a questa parte, a seguito di certi discorsi che ascolto in chiesa e a certe lette­re che scrivi tu, non mi fosse venuto il dubbio che senza un certificato di emarginazione, vistato magari dalle patrie galere, mi sarà difficile l’ingresso nel Regno di Dio. Dimmi, vescovo: ma un po’ d’acqua nel suo catino Gesù Cristo non ce l’avrebbe anche per me?” .
Non ho ancora dato riscontro a questa lettera.
Ma siccome so che gli stessi interrogativi sono condivisi da più di qualcuno, ho pensato bene di rispondere, per così dire, ad alta voce.
Mi viene in aiuto la figura evangelica di Natanaele, iden­tificato dalla maggior parte degli studiosi col figlio di Tolomeo e detto, perciò, Bartolomeo.
Era un uomo così pulito e trasparente, che quando Gesù lo vide la prima volta esclamò: “Ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità”.    .
Secondo l’evangelista Giovanni, questo apostolo simbo­lizza addirittura tutta una categoria di persone, e cioè gli israeliti fedeli, che non hanno tradito mai il Dio dell’ allean­za, si sono mantenuti irreprensibili fino alla venuta del Mes­sia, e da lui sono stati invitati a entrare nella sua nuova comunità.
Ebbene, la sera del giovedì santo, Gesù si è curvato a lavare anche i piedi di Bartolomeo, l’uomo onesto, nei cui occhi un giorno, mentre si trovava sotto il fico, egli, il Maestro, aveva visto specchiarsi il cielo limpido della rettitudine.
Anche quel cielo, però, aveva la sua piccola nube. Quando, infatti, Filippo gli andò a dire ,che Gesù di Nazaret era il Messia, lui, l’israelita integerrimo, il galantuomo, aveva replicato: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”.
Carissimi fratelli onesti, Bartolomeo è la vostra immagine. Non abbiate paura, perciò, di essere discriminati dal Signore. Egli, nel suo catino, l’acqua ce l’ha pure per i vostri piedi che, se si sono contaminati, è solo per la polvere della strada percorsa per andarlo a trovare.
Vi lava e vi asciuga con la stessa tenerezza. Perché vi vuoI bene da morire. Anzi, vorrei aggiungere che egli, sulle vostre estremità, indugia di più. Così come si indugia di più a detergere un cristallo di Boemia che a lavare un bicchiere di creta carico di tartaro.
I vostri piedi li lava e li asciuga con identico amore. Anche perché, forse tra gli alluci, si nasconde una piccola macchia difficile a scomparire: la riluttanza a ricevere. Dite la verità, non avete mai affermato pure voi: che cosa può venire di buono da Nazaret?
Forse questo è il vostro peccato, piccolo quanto volete, ma che vi colloca tra gli ultimi, pure voi. Vi siete esercitati solo a dare. A ricevere, no. Da un drogato può mai venire qualcosa di buono? Da una prostituta? Da un avanzo di galera? Che cosa può dare mai un marocchino, se non un pericolo di infezioni?
Forse questa è l’unica colpa che obbliga Gesù a inginoc­chiarsi dinanzi a voi e che spinge la Chiesa a fare altrettanto: non voler ammettere, sia pure per raffinate ragioni estetiche, che i poveri abbiano qualcosa da insegnarvi in termini di cre­scita umana. Sicché gli emarginati sono quasi lo spazio dove esercitare le virtù della generosità; ma solo nella direzione del dare, e mai dell’ avere.
Non abbiate paura, fratelli irreprensibili e buoni. Gesù Cristo si piega anche su di voi. Se non altro, per dirvi che non serve a nulla svuotare la casa per gli infelici, se poi non sapete introdurre qualcosa che essi possano offrirvi, sia pure un “souvenir”.
A me e a tutti voi, che apparteniamo alla confraternita dei galantuomini, conceda il Signore di capire che metterei sulla pelle la camicia dei poveri vale più che lasciarci scorticare vivi per loro.
Come San Bartolomeo, appunto.
Un affettuoso saluto


don Tonino, vescovo

11/03/2009

I piedi di Giovanni

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Carissimi,

è proprio un arrampicarsi sugli specchi voler trovare nei singoli beneficiari della lavanda dei piedi operata da Gesù, la sera del giovedì santo, altrettanti simboli delle diverse condizioni umane sulle quali egli, per impegnarci in un ser­vizio preferenziale di amore, ha inteso richiamare la nostra attenzione?
Ed è proprio fuori posto vedere in Giovanni l’emblema di quel mondo ad alto rischio che si chiama gioventù, e che oggi, nonostante il gran parlare che se ne fa e nonostante il timore non sempre reverenziale che esso incute, tarda ancora a divenire il referente privilegiato della nostra diaconia ecclesiale?
Ed è proprio una forzatura concludere che il Maestro, pie­gato sui piedi di Giovanni, il più giovane della compagnia, è l’icona splendida di ciò che dovrebbe essere la Chiesa, invi­tata da quel gesto a considerare i giovani come “ultimi”, non
tanto perché ai gradini più bassi della scala cronologica della. vita, quanto perché ai livelli più insignificanti nelle gradua­torie di coloro che contano?
Penso proprio di no.
Anzi, se qualcuno, fuorviato dal chiasso che fanno, dovesse
giudicare demagogica l’affermazione che i giovani oggi non hanno voce, mostra di aver frainteso il senso delle tenerezze espresse da Gesù verso quel mondo che ha sempre fatto fatica a farsi ascoltare.La figlia di Giairo, il servo del centurione, 1’unigenito della vedova di Nain, il giovane ricco, il figliol prodigo. .. sono indice di uno sbilanciamento del Signore nei confronti di coloro che, pur essendo oggetto di invidia struggente, hanno da sempre    accusato un deficit pesantissimo in fatto di accoglienza.
Ma torniamo ai piedi di Giovanni.
Come motivo iconografico, ma anche come suggestione omiletica, non hanno avuto molta fortuna.
E dire che la mattina di Pasqua, nella corsa verso il sepolcro, si sono dimostrati di gran lunga più veloci di quelli di Pietro, aggiudicandosi, a un palmo dalla tomba vuota, la prima edi­zione del trofeo “fede, speranza e carità”.
Ma al di là dello scatto irresistibile del giovane sull’ affanno impacciato del vecchio, quei piedi non sono entrati nell’im­maginario della gente.
La spiegazione ,è semplice: la testa del discepolo ricurva sul petto del Maestro ha distratto 1’attenzione dal capo del Maestro chino sui piedi del discepolo.
È una riprova ulteriore di come, anche nella Chiesa, le lusinghe emotive della teatralità prevaricano spesso sulla cru­dezza del servizio terra terra.
Che cosa voglio dire? Che noi ci affanniamo, sì, a orga­nizzare convegni per i giovani, facciamo la vivisezione dei loro problemi su interminabili tavole rotonde, li frastorniamo con 1’abbaglio del meeting, li mettiamo anche al centro dei pro­grammi pastorali, ma poi resta il sospetto che, sia pure a fin di bene, più che servirli, ci si voglia servire di loro.
Perché, diciamo celo con franchezza, i giovani rappresen­tano sempre un buon investimento. Perché sono la misura della nostra capacità di aggregazione e il fiore all’ occhiello del nostro ascendente sociale. Perché, se sul piano econo­mico il loro favore rende in termini di denaro, sul piano reli­gioso il loro consenso paga in termini di immagine. Perché,comunque, è sempre redditizia la politica di accompagnarsi con chi, pur senza soldi in tasca, dispone di infinite risorse spendibili sui mercati generali della vita.
Servire i giovani, invece, è tutt’ altra cosa.
Significa considerarli poveri con cui giocare in perdita, non potenziali ricchi da blandire furbescamente in anticipo.
Significa ascoltarli. Deporre i panneggi del nostro insop­portabile paternalismo. Cingersi l’asciugatoio della discrezione per andare all’ essenziale. Far tintinnare nel catino le lacrime della condivisione, e non quelle del disappunto per le nostre sicurezze predicatorie messe in crisi. Asciugare i loro piedi, non come fossero la protesi dei nostri, ma accettando con fiducia che percorrano altri sentieri, imprevedibili, e comunque non tracciati da noi.
Significa far credito sul futuro, senza garanzie e senza avalli. Scommettere sull’inedito di un Dio che non invecchia. Rinunciare alla pretesa di contenerne la fantasia. Camminare in novità di vita verso quei cieli nuovi e quelle terre nuove a cui si sono sempre diretti i piedi di Giovanni, l’apostolo dagli occhi di aquila, che è morto ultracentenario senza essersi stancato di credere nell’ amore.
Servire i giovani significa entrare con essi nell’ orto degli ulivi, senza addormentarsi sulla loro solitudine, ma ascol­tandone il respiro faticoso e sorvegliandone il sudore di sangue.
Significa seguire, sia pur da lontano, la loro via crucis e intuire, come il Cireneo ha fatto con Gesù, che anche quella dei giovani, abbracciata insieme, è una croce che salva.
Significa, soprattutto, essere certi che dopo i giorni dell’amarezza c’è un’alba di risurrezione pure per loro.
E c’è anche una pentecoste. La quale farà un rogo di tut­te le scorie di peccato che invecchiano il mondo. E attraver­serà la schiena della terra adolescente con un brivido di speranza.
Saremo capaci di essere una Chiesa così serva dei giovani, da investire tutto sulla fragilità dei sogni?
Un affettuoso saluto


don Tonino, vescovo

11/03/2009

I piedi di Giuda

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Carissimi,


è più facile parlare delle labbra di Giuda che dei suoi piedi. Tutto a causa di quel bacio, naturalmente.
Dagli affreschi di Giotto alle tele di Salvatore Fiume, infatti,
gli artisti, allungandole come due ventose, hanno adoperato quelle labbra come simbolo del tradimento.
Un tradimento che suscita reazioni emotive. Che allude. Una vigliaccata, insomma, che non lascia estraneo nessuno. Un mistero d’iniquità che provoca processi di identificazione e che, comunque, induce a riflettere.
Non c’è che dire: quelle di Giuda sono due labbra sco­mode per tutti. Se non altro, perché stanno a ricordarci che anche noi ci portiamo sulla bocca la possibilità di darlo ogni giorno, un bacio infame del genere.
I suoi piedi, invece, benché sospesi sul vuoto di un cre­paccio, non destano emozioni. Provocano solo ribrezzo. Gonfi nella tragedia del suicidio, sembrano il punto fermo di un discorso che ha finito di coinvolgere l’interlocutore. Più che l’ultima propagine di un corpo ancora caldo di vita, sono l’e­pilogo di una esistenza sbagliata. II fotogramma finale di una storia infelice. Le stremo dettaglio di una prova fallita.
Eppure, quei piedi sono stati lavati da Gesù. Con la stessa tenerezza usata per Pietro, Giovanni, Giacomo. Sono stati asciugati dalle sue mani col medesimo trasporto d’amore espresso per tutti. Senza neppure l’ombra di pose sceno­grafiche che accentuassero i contrasti a beneficio dei posteri.
I piedi di Giuda, come i piedi degli altri. Anche se più degli altri, per paura o per imbarazzo, hanno vibrato sotto lo scro­scio dell’acqua. Gesù se n’è dovuto accorgere. Tant’è che qualche istante più tardi ha fatto riferimento a quei piedi: « colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno”.
Ebbene, quel calcagno già levato nell’ atteggiamento pro­ditorio del calcio, e ciononostante investito dell’ acqua risto­ratrice del Maestro, rimane per tutti noi l’emblema di un ango­scioso bisogno di redenzione che chiede il nostro servizio e non il rigore della nostra condanna.
Non importa quale sia l’esito della lavanda. Così come non importa sapere se il destino finale di Giuda sia stato di sal­vezza o di perdizione. Sono affari del Signore: l’unico capace di accogliere fino in fondo il mistero della libertà umana e di comporne le scelte, anche le più assurde, nell’ oceano della sua misericordia. A noi tocca solo entrare nella logica del ser­vizio, di fronte alla quale non esiste ambiguità di calcagni che possa legittimare il rifiuto o la discriminazione.
Carissimi fratelli, se Giuda è il simbolo di chi nella vita ha sbagliato in modo pesante, il gesto di Cristo curvo sui suoi piedi ci chiama a rivedere giudizi e comportamenti nei riguardi di coloro che, secondo gli schemi mentali in commercio, sono andati a finire sui binari morti di un’ esistenza fallimentare.
Di chi è finito fuori strada per colpa propria o per malizia altrui. Di chi ha calpestato i sentimenti più puri. Di chi ha ripagato la tenerezza con l’ingratitudine più nera. Di chi ha deviato dalle rotte di una fedeltà promessa. Di chi ha infranto le regole di un’amicizia giurata. Di chi ha spezzato i legami di una comunione antica. Di chi non ce l’ha fatta a seguire Gesù fino al Calvario. Di chi dai chiarori del cena­colo è precipitato nella notte della strada. Di chi non ha avuto fortuna e ha abdicato, per debolezza o per ingenuità, ai pro­getti della gioventù.
Sui piedi di questi fratelli, col divieto assoluto di sollevare lo sguardo al di sopra dei loro polpacci, noi, protagonisti di tradimenti al dettaglio e all’ingrosso, abbiamo l’obbligo di versare l’acqua tiepida della preghiera, dell’ accoglienza e dell’accredito generoso di mille possibilità di ravvedimento.
Lavare e asciugare i piedi di Andrea che se n’è andato con un’ altra donna, lasciando moglie e figli senza far sapere più nulla, e ora è disperato. Lavare e asciugare i piedi di Marisa che ha smesso di studiare, è scappata di casa, si buca siste­maticamente, si è ammalata di AIDS, e ha prostrato la fami­glia nella vergogna. Lavare e asciugare i piedi di Mario che ha fatto un bidone agli amici, e ora che si è pentito non gli crede più nessuno perché bollato come infame per tutta l’e­ternità. Lavare e asciugare i piedi di Damiano, anzi il piede di Damiano perché uno glielo hanno amputato per cancrena: rubava, si ubriacava, colpiva alle spalle, e ora tutti dicono che ben gli sta.
Purificati da un lavacro d’amore, quei piedi, sia pure per carreggiate sconosciute, non potranno fare a meno di orien­tarsi verso la casa del Padre.
Ringraziamo il Signore, perché, al cappio della dispera­zione che stringe la gola, ci fa sostituire il cappio di un asciu­gamano, che stringe i fianchi col nodo scorsoio della speranza.
Vi saluto

 

don Tonino,  vescovo

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